Quando ci si accosta ad operazioni culturali, analoghe a questa raccolta antologica di poesie in dialetto, difficilmente si sfugge alla domanda ormai diventata usuale, se non obsoleta: “Perchè una pubblicazione del genere”? Da anni si è aperto un dibattito sull’opportunità o meno di correr dietro al dialetto, sull’importanza o meno di dar voce a questa lingua. “Lingua” per dar retta a coloro, che definiscono il volgare, anch’esso, una lingua; una lingua sfortunata, che non ha avuto l’opportunità di imporsi sulle altre fino ad assurgere al rango di “parlata” nazionale, come è invece capitato al dialetto fiorentino in virtù dei tre grandi, Dante, Petrarca e Boccaccio, che in quel volgare hanno composto i loro capolavori; e grazie ai banchieri del Giglio, che l’hanno diffuso con i loro traffici. Solo per questi avvenimenti, culturali e sociali, in certo senso casuali, la koinè toscana è diventata la base della lingua nazionale. Ma ai tempi dell’unità d’Italia gran parte delle varie popolazioni ignoravano ancora la lingua del Bel Paese e continuarono a parlare i loro dialetti, soprattutto nelle campagne. Così l’italiano diventò sinonimo di città, di raffinatezza, di classe superiore; il dialetto rimase patrimonio dei ceti socialmente inferiori. Tanto che quando nacque la “questione sociale” il plebeo, che avesse osato parlare “in punta ed furzèina” veniva deriso, perchè rinunciava ad un emblema, che gli apparteneva; quasi volesse boicottare e abbandonare lo stato sociale, che gli era proprio. Ora le giovani generazioni dichiarano di ignorare il dialetto; eppure tutt’intorno, nell’aria che si respira, per le vie e nelle strade, nei locali pubblici, s’intuisce che il dialetto canta ancora la sua musica, entra ancora nelle orecchie e nel sangue. Ed è questo suo esserci che in definitiva ha importanza. Così dice pressapoco un filologo, Claudio Marabini, che conclude: “La fine definitiva del dialetto sarebbe una morte sociale e civile; comporterebbe la scomparsa di un pazzo d’umanità. Ed è proprio questo “pezzo d’umanità”, che traspare evidente dall’impegno dei poeti dialettali, racchiusi in questa silloge, curata da Giuseppe Di Genova e Lodovico Arginelli offrendoci così un panorama poetico dosatamente variegato; una sorta di convivio d’amicizia e di rime. Il volgare è una lingua autoctona, è un racconto senza scritture, sbocciato nei solchi dei campi e nelle viuzze poverissime della città. Vive con poco; è semplice e frugale. Nato in libertà assoluta, può indossare a suo piacimento, senza inceppi di sintassi, disparità di colori vocalici, può captare varietà di suoni, può assorbire timbri speciali. Tutta “roba” questa che non è consentita sempre alla lingua ufficiale. È positivo e significativo poter constatare che anche in questi tempi così intrisi di consumismo e di chiasso vi sono amici, che tendono anima e cuore a calarsi in certe zone d’ombra del passato e inculcano la seducente civiltà del dialetto. Il dialetto oggigiorno “al tira fiè cun i deint” e ben venga ogni aiuto per dargli ossigeno e tardarne la fine con le più opportune terapie.
Autore/Autrice :
Arginelli Lodovico , Di Genova Giuseppe
Titolo :
Cinquecento anni di poesia dialettale modenese
ISBN :
9788870003734
Pagine :
350
Uscita :
2002
Formato:
17 x 24
7 disponibili